Piero Salzarulo, Gianluca Ficca

La mente nel sonno

Laterza, Roma-Bari 2004
Cap. 3 Il sogno (pp. 30-71)

3.1. Introduzione

Accanto a coloro che pensavano che nel sonno il cervello si riposi, cioè non sia attivo e non produca attività mentale, altri avevano maturato da tempo la convinzione che anche nel sonno si svolgano processi mentali.

Il sogno è uno dei testimoni dell'esistenza di attività mentale nel sonno. Rispetto ai processi mentali della veglia, il sogno ha avuto uno statuto particolare. Da una parte, perché è riferito ad un momento, il sonno appunto, in cui non si ha «coscienza» di ciò che accade; il suo studio ci obbliga infatti a un percorso a ritroso, in cui del sogno «originario» rimangono a volte pochi elementi, a volte un'impressione. Dall'altra, perché spesso esso ci stupisce per elementi incomprensibili, misteriosi e quindi evocatori di curiosità.

Il sogno, però, non è stato solo oggetto di curiosità, ma anche oggetto di studio, attraverso l'uso di vari metodi, talvolta integrato in concezioni teoriche dell'apparato psichico o del Sistema Nervoso Centrale (SNC) o del mondo.

In questo capitolo innanzitutto ricorderemo brevemente un approccio largamente conosciuto nel mondo occidentale contemporaneo, quello della psicoanalisi (per una trattazione più estesa, si veda il libro collettivo curato recentemente da Bolognini, 2000), a cui seguirà il richiamo ad alcune teorie e pratiche riguardanti l'attività onirica in quanto espressione delle variazioni culturali dell'interesse per il sogno e soprattutto della sua comunicazione. Una larga parte del capitolo sarà consacrata, come già annunciato nell'introduzione generale, all'approccio sperimentale al sogno e al rapporto con il funzionamento del SNC.

3.2. Il sogno nella psicoanalisi

Lasciamo volontariamente uno spazio ridotto a questo approccio in quanto è il più conosciuto e diffusamente trattato da molti autori in numerose opere. Ricorderemo soltanto quegli aspetti metodologici ed epistemologici che ci permettono di capire le differenze fondamentali con altri approcci, aspetti che abbiamo già sintetizzato alcuni anni fa (Salzarulo et al., 1973).

Diciamo innanzitutto che il sogno per la psicoanalisi assume un ruolo cruciale per la comprensione di tutta l'organizzazione mentale dell'individuo e del sonno stesso: «ciò che sappiamo delle caratteristiche psichiche dello stato di sonno l'abbiamo appreso naturalmente attraverso lo studio del sogno» (Freud, 1917, ed. it. 1976, p. 90).

Nel sogno vengono «fisiologicamente» (cioè, nell'ambito di elaborazioni non patologiche) elaborati conflitti inconsci in modo mascherato, cioè non comprensibile immediatamente dal soggetto. Si tratta dello stesso meccanismo che è alla base delle manifestazioni «nevrotiche» che si realizzano nella veglia, ma che, in quest'ultimo caso, provocano disagio e sofferenza. Freud pone alla base dell'elaborazione del sogno il confluire nel racconto onirico di due processi (primario e secondario) che interagiscono tra di loro. Ed è preoccupazione della psicoanalisi insistere sul concetto di trasformazione che lega eventi e pensieri della veglia a rappresentazioni sotto forma di immagini nel corso del sonno (Freud, 1917, ed. it. 1976).

Alla psicoanalisi non interessa definire le caratteristiche fondamentali del sogno o del suo racconto. Sul piano empirico è importante che il soggetto/paziente porti/racconti un sogno allo psicoanalista.

L'analisi del sogno e la sua comprensione passano inevitabilmente, a livello soggettivo (cioè del soggetto che sogna), attraverso l'interpretazione proposta dallo psicoanalista nell'ambito di una relazione trasferenziale. Al di là delle varianti di scuola, il punto fondamentale riguardante il sogno, per la psicoanalisi, è l'interpretazione data dallo psicoanalista, che fa sì che venga ricostruito ciò che esisteva nella storia del soggetto senza essere conosciuto, cioè, fa sì che il sogno assuma un significato.

3.3. Sogno e cultura

Quando il sogno viene «prodotto» e «vissuto» dall'individuo, esso rappresenta un'esperienza privata e non immediatamente trasferibile (Rechtschaffen, 1967). Tuttavia, smette di esserlo e assume significati differenti, quando viene raccontato; la trasmissione di questa esperienza è modulata dalle caratteristiche della cultura in cui il soggetto vive.

Una trattazione approfondita delle relazioni fra sogno e cultura va ovviamente oltre gli scopi di questo libro, e la si può peraltro trovare in un recente volume curato da uno di noi in collaborazione con Patrizia Violi (Salzarulo e Violi, 1998). Ci sembra però interessante fornire ugualmente qualche spunto sull'argomento che serva a caratterizzare il sogno come un oggetto di studio interdisciplinare.

Il ruolo che il sogno assume in un determinato contesto sociale è indirettamente, ma significativamente, espresso dalla frequenza e dalle modalità con cui i sogni «possono» e/o «debbono» essere comunicati ad altre persone.

Le differenze interculturali di atteggiamento verso il sogno fanno sì che alcuni dei risultati sperimentali sul ricordo del sogno che verranno menzionati nei paragrafi successivi possano essere modulati in funzione della popolazione in cui vengono raccolti.

In uno studio di Kuiken (1987), condotto tramite questionari su un gruppo di indiani nordamericani, si riscontrò che questi soggetti al risveglio si sentivano più vigili e riportavano un maggior numero di resoconti di sogno rispetto ai soggetti non indiani del gruppo di controllo. Questo dato costituisce l'espressione di un atteggiamento culturale molto spiccato degli indiani nordamericani: quello di dedicare attenzione ai sogni per analizzarli e comprenderli. Che il sogno possa avere poi un impatto sui comportamenti e sulle scelte individuali è dimostrato dal fatto che questi soggetti di solito, nella vita reale, cercano di entrare in contatto con le persone apparse in sogno.

L'importanza attribuita al sogno varia quindi secondo le culture, ed è legata a prospettive religiose, filosofiche e alla concezione globale del mondo.

In molte culture non occidentali, ad esempio in alcune tribù dell'America Latina, il sogno è un elemento centrale nell'organizzazione della vita quotidiana. Le ricerche condotte da Jacques Galinier (1998) fra gli Otomi, un gruppo che abita le foreste messicane, hanno individuato, come per gli aborigeni dell'Australia, un ruolo centrale del sogno nell'ambito di un vero e proprio sistema cosmologico. All'interno di questo sistema, le leggi del sonno e del sogno sono marginali rispetto ai significati metafisici che assume l'entrata in un differente stato di coscienza. È questa entrata, ripetitiva e «ritualistica» (e alla quale si fa spesso riferimento nei discorsi «della veglia»), a consentire il periodico realizzarsi di ciò che fra gli Otomi è chiamato khwani, ossia un fenomeno dalle molteplici implicazioni: frammentazione del corpo, al punto di congiunzione fra due diversi universi spazio-temporali, ma anche processo che permette la liberazione di forze incontrollabili e una «rivelazione» che apre le porte del risveglio, cioè del ritorno alla dimensione consueta.

Il sogno assume un valore straordinario anche per le civiltà aborigene australiane la cui cosmogonia, raccontata dall'esploratore ed etnologo Bruce Chatwin in Le vie dei canti (1988), è imperniata su un «tempo dei sogni» (dreamtime), magico e non asservito alle leggi della fisica.

Gli aborigeni australiani e gli Otomi sono esempi di come il sogno possa avere una valenza non soltanto profetica ma addirittura di «creazione del mondo». Per questo motivo, vi sono connessioni «rigide» tra contenuti manifesti dei sogni e significati; il sogno è considerato come un agente di causalità diretta che deve essere pubblicamente raccontato o messo in scena (spesso in cerimonie e riti collettivi) affinché possa esercitare i suoi effetti. In molte società «tribali» l'interesse maggiore legato all'interpretazione onirica riguarda la profeticità, non solo nel senso di anticipare un evento, ma anche di renderlo possibile (to bring it about, Hunt, 1989: p. 84).

Ciò è in antitesi con il concetto freudiano di sogno privato e «asociale», e con il modo in cui i sogni sono interpretati dall'analista. Mauro Mancia, in un contributo al libro di Salzarulo e Violi (1998), fa notare che il contesto della psicoanalisi è una relazione individuale (terapeuta-paziente) protratta all'interno di un setting privatissimo, e che l'interpretazione dei sogni avviene sulla base di connessioni «flessibili» tra contenuto manifesto e significato con molteplici alternative. E’ interessante notare che per Umberto Eco questo tipo di relazione è una caratteristica del simbolo, dove l'espressione è correlata con una «nebulosa» di contenuti (si veda la discussione di Patrizia Violi nel suo lavoro pubblicato nel volume a cura di Salzarulo e Violi, 1998).

Sia lo sciamano tribale che lo psicoanalista della società sono comunque personaggi che «interpretano». Personaggi cruciali, in quanto consentono una comunicazione fra il mondo reale e quello onirico.

3.4. Lo studio sperimentale del sogno

3.4.1. Gli inizi

 L'indagine sul sogno e l'analisi delle sue caratteristiche possono avvalersi anche di un approccio sperimentale. Ciò vuol dire applicare a quest'oggetto le metodiche proprie della psicologia sperimentale, con un controllo rigoroso delle situazioni e dei parametri che possono influenzare non soltanto le caratteristiche ma, nel caso del sogno, anche la sua presenza in quanto oggetto visibile, nel senso di «raccontabile» e «raccontato».

Questo tipo di approccio ha una storia relativamente recente sviluppatasi negli ultimi anni dell'800. Nel corso della seconda metà del XIX secolo, infatti, si colloca il tentativo di conferire scientificità allo studio del sogno. In altri termini, il motivo per cui tale periodo è così importante - come spiega Antonella Lucarelli (1998) in una sua analisi dell'opera di Alfred Maury e di Hervey de Saint-Denis - è il progresso della medicina, che spinse gli scienziati a spostare il sogno da un piano «trascendente e immateriale» (al confine con quello delle credenze magico-religiose) ad un altro, quello «fisico», in cui fosse possibile identificare dei parametri misurabili e quantificabili. In tal modo, lo studio del sogno diventava soprattutto lo studio delle condizioni fisiologiche nelle quali il sogno veniva prodotto.

Come Vaschide fa notare nel suo libro Le sommeil et les rêves (1911), possiamo far risalire proprio agli studi di Maury l'inizio di un'indagine sistematica sul sogno. Il termine «sperimentale», nel caso di Maury e di altri autori che lo seguirono, ha una connotazione meno restrittiva di quella che ha oggi. Include in alcuni casi osservazioni precise sul sogno o inchieste e statistiche (per esempio, Calkins, 1893 ) ; in altri casi, analisi critiche con documenti e fatti in appoggio (tra questi autori, Weygandt e l'italiano de Sarlo). Infine, le ricerche sperimentali vere e proprie, con ripetizione della stessa situazione sullo stesso soggetto o con più soggetti. In tutti i casi, la descrizione del metodo doveva mettere un altro studioso nella condizione di poter ripetere lo stesso esperimento.

Vaschide (1911) classifica i metodi impiegati nello studio del sogno in quattro categorie fondamentali: il metodo soggettivo diretto, o «introspettivo», il metodo oggettivo, il metodo eclettico, il metodo dei questionari e delle interviste.

Il metodo soggettivo nasce con Maury, di cui Vaschide descrive la sistematica applicazione di una tecnica «diaristica» sui propri stessi sogni, nella quale viene dedicata una grande attenzione anche alle circostanze dell'addormentamento e del risveglio spontaneo.

Una interessante considerazione di Maury, come è stato fatto notare da Jouvet (1992, p. 41), è quella di considerare il sogno come un fenomeno episodico, legato ad alcune parti del sonno: le fasi dell'addormentamento (immagini ipnagogiche) e del risveglio (immagini ipnopompiche), o le fasi influenzate da stimoli interni (ad esempio il dolore) e/o esterni (ad esempio il rumore). Ciò introduce due concetti essenziali, ossia le relazioni fra sogno e tipo di sonno, e fra sogno e risveglio, e conduce ad una vera «svolta» metodologica. Con Maury, infatti, comincia ad essere utilizzata una tecnica che diventerà molti anni dopo una delle componenti fondamentali dello studio psicofisiologico del sogno: il risveglio provocato. Una persona, cioè, ha il compito di svegliare il soggetto, che in questo caso è lo sperimentatore stesso, in determinati momenti nel corso del sonno. Ed è interessante notare che lo scopo è quello di poter cogliere il sogno sul nascere o, come dice Maury (1865, p. 2), nel momento in cui «la memoria del sogno al quale sono stato improvvisamente strappato è ancora presente nella mia mente, nella freschezza stessa dell'impressione».

Questo problema, cioè del dissolversi del sogno dopo il risveglio, è ben presente anche in ambito letterario: si veda la frase di Jean Cocteau citata in apertura di questo volume: «uscito dal sonno il sogno appassisce».

Lo scopo di «carpire» il sogno prima che esso «appassisca» lo si ritrova in quelle ricerche sperimentali che hanno caratterizzato gli ultimi 40 anni, come è stato sottolineato da Salzarulo et al. (1973) nell'ambito di una discussione sulle implicazioni metodologiche e teoriche delle ricerche di psicofisiologia del sogno.

L'analisi dei sogni, nel caso di Maury, passa attraverso ciò che lui chiama l'introspezione. Dopo un intervento esterno atto a svegliare il soggetto, il seguito dell'esperimento è basato sulla capacità «soggettiva» a cogliere, riportare e infine valutare la propria produzione onirica. In questo caso, ci troviamo in un contesto che è radicalmente diverso da quello psicoanalitico, in cui ogni valutazione soggettiva è mediata dall'interpretazione dello psicoanalista. L'attenzione del soggetto-sperimentatore, inoltre, è volta a categorizzare parole e oggetti che appaiono nel racconto, talvolta riconducendoli a situazioni presenti nella veglia del(i) giorno(i) precedente(i).

Alcuni autori, tra cui Maury stesso, hanno applicato la procedura sperimentale, che implica il risveglio provocato, a soggetti altri da se stessi.

Già verso la fine dell'800 alcune ricerche avevano utilizzato stimoli di varia natura (uditivi, tattili, visivi) per cercare di capire i processi che portano alla formazione dei sogni e in particolare l'inclusione di materiali-stimoli nel contesto del sogno. In questo senso gli esperimenti cercavano di sistematizzare, attraverso la ripetizione dello stesso stimolo in uno o più soggetti, le esperienze soggettive in cui lo sperimentatore aveva potuto collegare un particolare del sogno a un evento presente prima o durante il sonno. E’ noto, a questo proposito, il sogno raccontato da Maury (1865, p. 131):

Mi ricordo di essermi addormentato, una volta, durante l'infanzia, a causa del gran caldo. Sognai che mi avevano messo la testa su un'incudine e che la martellavano con colpi ripetuti. Nel sogno sentivo molto distintamente il rumore dei pesanti martelli. Ma per uno strano effetto, invece di essere frantumata, la mia testa si scioglieva in acqua: si sarebbe potuto dire che fosse fatta di cera molle. Mi sveglio e sento il mio volto inondato di sudore, traspirazione che non era dovuta che al grande calore. Ma la cosa più notevole è che sento in un cortile vicino, abitato da un maniscalco, i colpi molto reali di martelli. Senza dubbio era stato quel suono ad essere trasmesso dalle mie orecchie al mio animo intorpidito.

Vaschide (1911) introduce un termine, trasformazione, che sarà ripreso da studi di tipo cognitivo degli anni '80 e che è ovviamente, pur se con altri significati, al centro dell'approccio psicoanalitico alla vita mentale e al sogno in particolare.

Rimanendo al periodo compreso tra fine '800 e inizio '900, si fece strada per alcuni (Mourly Void, citato da Vaschide) l'idea che si potessero creare dei veri sogni artificiali attraverso la manipolazione delle afferenze sensoriali.

Per completare l'analisi di questi primi approcci sperimentali si deve citare l'utilizzo dei questionari, destinati a valutare frequenza e caratteristiche dei sogni in gruppi di soggetti abbastanza numerosi. Alcuni elementi che compaiono negli items di questi questionari annunciano quelli che si ritrovano negli studi più recenti. Si tratta di categorie quali bizzarria, vivacità, complessità. Non vi sono all'evidenza, in queste categorie - e quindi nelle informazioni che si chiedevano ai soggetti - elementi che si riferiscano ad una concettualizzazione scientifica del sogno e dell'attività psichica. Si tratta piuttosto di costituire generiche banche-dati di argomenti e contenuti, quali oggi interessano soprattutto i media.

Nell'ambito degli approcci sperimentali che abbiamo descritto, la figura di Vaschide assume un ruolo particolare. Non solo egli ha condotto esperimenti con tecniche simili a quelle menzionate e ha sistematizzato con i suoi scritti i risultati di ricerche a lui precedenti e contemporanee, ma ha anche insistito sulla necessità di controllare (parola chiave per uno sperimentatore) ciò che chiamava la «profondità» del sonno. Si trattava, per Vaschide, di valutare tale profondità attraverso l'osservazione della motilità corporea, delle espressioni facciali, del ritmo respiratorio e di quello cardiaco. Queste attività variano nel corso dell'episodio di sonno, esprimendo una diversa profondità dello stesso ed influenzando in questo modo la «natura» e il «ricamo» - secondo le espressioni di Vaschide -, in una parola, la «struttura» dei sogni. La modernità di Vaschide si manifesta all'evidenza anche nel riferimento a queste caratteristiche, sia del sonno che dei sogni.

Vaschide sostiene inoltre che esistono due tipi di sogni: gli uni, i «veri» sogni, si verificano nel sonno profondo, gli altri, i «mezzi-sogni», nei momenti prossimi al risveglio. Nei primi si ritrovano non solo immagini sensoriali ma anche un'emozione che permette di distinguerli dalle immagini della veglia. Il sogno raccontato il giorno successivo sarà influenzato da entrambi i tipi di produzione onirica e rappresenterà il prodotto di trasformazioni successive.

Renderemo conto successivamente delle numerose ricerche che hanno avuto lo scopo di confrontare il racconto dello stesso sogno (o, per usare la terminologia di Cipolli e Salzarulo, della stessa «esperienza mentale del sonno») proveniente dal ricordo immediato, fatto subito dopo il risveglio nella notte, con quello successivo, fatto, per esempio, al mattino seguente. Le differenze sono di grande importanza perché forniscono precise indicazioni sulle già menzionate relazioni fra sogno e processi di memoria e perché ad esse possono essere parzialmente attribuite le diversità fra il sogno ottenuto nel setting «domestico» e naturalistico, e quello ottenuto in laboratorio attraverso l'uso di tecniche sperimentali (Cipolli e Salzarulo, 1998).

3.4.2. La «moderna» psicofisiologia del sogno

Con la scoperta della fase REM è iniziata una nuova èra non solo nello studio del sonno, ma anche nello studio sperimentale del sogno: verso la fine degli anni '50 è infatti iniziato un approccio psicofisiologico che ha messo in relazione il (racconto del) sogno con le attività fisiologiche registrate nello stesso soggetto e nella stessa notte.

Questo nuovo approccio ha condiviso con alcuni degli orientamenti sperimentali precedenti il risveglio provocato durante il sonno. In effetti, dopo le prime osservazioni di Dement e Kleitman (1957) sulla frequenza elevata di ricordo di sogni dopo risvegli in sonno REM, sono state effettuate centinaia (o forse migliaia) di ricerche che condividevano tutte il risveglio provocato, legato a un tipo di sonno identificato attraverso le registrazioni poligrafiche in un contesto (setting) particolare e supercontrollato qual è il laboratorio.

Il numero di ricerche su questo argomento ha raggiunto un picco alla fine degli anni '60; in seguito, per i successivi 10-15 anni si è verificata una notevole diminuzione; in questi ultimi decenni vi è stato un ritorno di interesse e di studi con nuovi risultati (Foulkes, 1996a; Schulz e Salzarulo, 1997). Il motivo di queste fluttuazioni nel corso degli anni risulterà più chiaro nelle pagine seguenti, in cui esamineremo il contesto storico-culturale di queste ricerche e il valore euristico portato dalla scoperta del sonno REM e di altre attività fisiologiche durante il sonno.

3.4.3. Tecniche utilizzate negli studi psicofisiologici

Per valutare la portata e i limiti degli studi psicofisiologici del sogno, è necessario avere presenti le tecniche utilizzate sia sul versante fisiologico che psicologico.

Sono state utilizzate: a) le registrazioni poligrafiche (di solito notturne), che prevedono l'acquisizione di segnali indispensabili per valutare il tipo di sonno nel quale si trova il soggetto; b) la raccolta attraverso una consegna, cioè un compito che viene dato al soggetto in una forma codificata, del materiale riferentesi all'attività mentale del sonno sia dopo risveglio notturno provocato che spontaneo al mattino.

Per la raccolta del materiale onirico, sono state utilizzate due consegne: «Cosa stavi sognando?» (Dement e Kleitman, 1957), oppure, dal 1962, con gli esperimenti di David Foulkes, «Cosa ti passava per la mente prima del risveglio?». L'importanza della consegna apparirà nei risultati, di cui si parlerà successivamente.

Il sogno può essere raccolto sia in forma libera che in forma «guidata», attraverso la somministrazione di adeguati probes, ossia indizi (per esempio, al mattino, la prima unità di contenuto di un resoconto di sogno fornito la notte) (Cipolli et al., 1984).

Il materiale raccolto deve poi essere analizzato. Ciò è stato fatto in diversi modi, dai più semplici (o naïves) ai più sofisticati, in alcuni casi con lo scopo di dare una valutazione «globale» del sogno, in altri con quello di identificare singole componenti.

Un primo approccio è consistito nel lasciare al soggetto dell'esperimento la valutazione della propria esperienza mentale e l'attribuzione del termine «sogno».

Successivamente sono state utilizzate tecniche che quantificano elementi del racconto: si tratta di scale di contenuto. Tra le più note ed utilizzate, quella di Hall e Van de Castle (1966). Questa scala comporta due tipi di categoria, una empirica e l'altra teorica. E’ interessante notare che le categorie teoriche (per esempio, Forza dell'Io) sono prese a prestito da terminologie e concetti di origine psicoanalitica: ritorneremo in seguito su questo aspetto.

Il lavoro di David Foulkes ha cercato di mettere a punto strumenti volti a distinguere due tipi di racconto, riconducibili rispettivamente ad una mentazione «sogno-simile» (dream-like) e «pensiero-simile» (thought-like). A questo fine egli ha utilizzato sia questionari che scale di contenuto. Uno di questi strumenti è la Dream Information Survey, questionario che deve essere riempito con le risposte del soggetto stesso. Gli items del questionario cercano di mettere in evidenza la presenza, nel racconto del sogno, dei principali aspetti che caratterizzano un racconto dream- like, ossia elementi visivi, uditivi e cenestesici; il cambio di identità del soggetto; l'ambiente non corrispondente ad ambienti reali o conosciuti. E’ interessante notare che il racconto thought-like viene definito «per esclusione», cioè non per la presenza di caratteristiche proprie, bensì in funzione dell'assenza di quelle attribuite al dream-like, definizione, questa, che Salzarulo et al. (1973) considerano estremamente criticabile sul piano metodologico.

Foulkes e coli. (1966) hanno poi costruito una scala ordinale con otto possibili scelte (Dream-like Fantasy Scale). In questo caso l'applicazione della scala ai resoconti forniti dal soggetto è fatta da due giudici, i quali provvedono a situare il racconto su uno dei livelli (punti) della scala, in un percorso che va da «nessun contenuto» a «contenuto percettivo allucinatorio, bizzarro o nonabituale, scenico».

Oltre alla descrizione del resoconto del sogno attraverso le scale, alcuni autori si sono interessati ad un'analisi del contenuto del resoconto del sogno, centrata sull'espressione linguistica del resoconto. Ovviamente, il problema della generazione mentale del sogno è molto complicato e di difficile soluzione, fondamentalmente perché non è possibile accedere ai meccanismi di produzione del sogno se non attraverso ciò che il soggetto recupera e racconta (Foulkes e Schmidt, 1983). I risultati, quindi, dovrebbero essere interpretati all'interno di un'ipotesi che preveda una mediazione tra il processo di produzione e quello di recupero.

Un tentativo di analizzare il resoconto del sogno secondo un approccio di tipo linguistico è stato compiuto da Antrobus (1983), attraverso il conteggio delle parole appartenenti a diverse classi linguistiche elementari: nomi concreti, modificatori dei nomi, verbi di azione, preposizioni spaziali. In particolare, questo autore ha confrontato il numero e la frequenza delle parole relative alla dimensione «immaginazione visiva» o «partecipazione emotiva», nei resoconti da sonno REM e da sonno NREM. Lo studio ha mostrato, tra l'altro, che il numero delle parole in ciascuna di queste quattro classi è un buon indice di discriminazione dei resoconti provenienti da sonno REM o NREM.

Non è possibile, comunque, definire una costruzione complessa, qual è il sogno, in termini di un semplice conteggio di parole prese come elementi isolati.

Un passo avanti nelle tecniche di analisi linguistica dei resoconti dei sogni è stato fatto da Salzarulo e Cipolli (1974 e 1979), i quali hanno utilizzato una sofisticata metodologia basata sull'applicazione delle regole della grammatica generativo-trasformazionale di Chomsky (1957, 1965) all'analisi dell'espressione del resoconto verbale del sogno proveniente da sonno REM e NREM. Lo scopo di questo metodo di indagine è duplice: da una parte, si è voluto indagare sul modo in cui avviene il processo di recupero del sogno dopo il risveglio, dall'altra si è voluto analizzare il modo in cui il soggetto «ricostruisce» il sogno dal punto di vista dell'espressione linguistica del resoconto verbale.

Secondo tale tecnica, i resoconti dei sogni vengono raccolti svegliando i soggetti da sonno REM e NREM e facendogli la seguente domanda: «Cosa stava passando nella tua mente prima che ti svegliassi?».

Successivamente, i resoconti classificati come contentful report (secondo la suddivisione elaborata da Cohen [1972] i resoconti contentful contengono almeno una frase relativa al contesto dell'esperienza mentale) vengono suddivisi in frasi, definite come entità linguistiche con un significato e separate dalla frase seguente mediante una pausa. Per analizzare la frase dal punto di vista sintattico, ogni sequenza verbale viene poi analizzata secondo le regole della grammatica trasformazionale: viene cioè scomposta in frasi kernel (nucleari) e vengono individuate le possibili combinazioni. Chomsky (1957) definisce una frase kernel una sequenza di sei unità morfologiche: determinativo-nome-verbo-preposizione-determinativo-nome. Ogni frase kernel viene poi classificata come «completa» (contenente tutte le sei unità morfologiche) o «incompleta», e come «appartenente all'esperienza mentale» o «appartenente allo stato del soggetto dopo il risveglio». Anche le pause vengono annotate e classificate come «pause tra due kernel» o «pause all'interno di una kernel».

Per analizzare il processo di recupero del sogno vengono utilizzati i seguenti indicatori: la frequenza dei resoconti contentful e contentless sul resoconto globale, la lunghezza del resoconto, la frequenza delle frasi kernel relative alla veglia sul resoconto globale, la lunghezza media delle frasi, la frequenza delle «pause tra due kernel».

Successivamente, per valutare la forma linguistica del resoconto vengono utilizzati due indicatori di organizzazione sintattica (la profondità media e la complessità delle trasformazioni delle kernel) e un indicatore di selezione lessicale (la frequenza delle «pause all'interno di una kernel»).

Nel 1983, Foulkes e Schmidt hanno proposto una nuova tecnica di analisi del sogno basata sulla ricerca delle unità temporali e della sequenza degli elementi del resoconto. Il protocollo sperimentale di Foulkes e Schmidt prevede risvegli provocati nei diversi stati di sonno, a cui segue la raccolta del resoconto attraverso un'intervista guidata che è composta da due domande consecutive, a cui può seguire una terza: la prima domanda è «Per favore, dimmi qualsiasi cosa tu riesca a ricordare di quello che ti passava per la mente prima che ti svegliassi», seguita da «Adesso voglio che tu mi dica, considerando tutte le cose che hai raccontato, l'ordine nel quale tu pensi di averle vissute». Se il soggetto, rispondendo alla seconda domanda, non include tutti gli elementi del resoconto precedentemente fornito, lo sperimentatore gli ricorda l'elemento e chiede «Dove si situa, nella sequenza che mi hai descritto?».

Il resoconto viene analizzato da due giudici diversi secondo tre categorie: Attività, Ambienti, Personaggi. Un'unità temporale di categoria Attività, per esempio, consiste in qualsiasi attività sia avvenuta contemporaneamente ad un'altra e non in momenti differenti. Una nuova unità temporale viene annotata quando: a) un personaggio compie un'azione che non può essere svolta verosimilmente insieme ad un'altra; b) quando un personaggio reagisce ad un altro personaggio o ad un evento; c) quando si cambia argomento nel corso del resoconto. Per ogni unità temporale Attività rilevata, i giudici devono stabilire l'ambiente in cui si svolge e, se menzionati, i personaggi che ne fanno parte.

Lo scopo specifico di questo tipo di analisi è quello di determinare se vi siano differenze nei meccanismi coinvolti nella costruzione del sogno tra sonno REM e sonno NREM; per questo, si cercano eventuali differenze qualitative nei resoconti dei sogni ottenuti nei risvegli nei due tipi di sonno. In particolare, questa analisi permette di confrontare i resoconti secondo la continuità- discontinuità della presenza dei personaggi e degli ambienti. Questo è possibile attraverso il reperimento, all'interno del resoconto, delle unità temporali di contenuto e della loro sequenza. Poiché i confronti vengono fatti tenendo in considerazione la lunghezza dei resoconti, che può essere uguale o diversa, è possibile determinare se le eventuali differenze sono effettivamente dovute allo stato di sonno, oppure se sono da ascrivere alla maggiore o minore lunghezza del resoconto.

3.4.4. Scopi e risultati delle ricerche psicofisiologiche

Lo scopo di mettere in relazione la psicologia e la fisiologia del sonno è stato perseguito valutando le caratteristiche fisiologiche sia sull'insieme della notte in rapporto con il racconto del sogno al mattino, sia nel periodo immediatamente precedente il risveglio provocato ad hoc in rapporto al resoconto del sogno fornito subito dopo.

Molti studi negli anni '60 e '70 utilizzarono categorizzazioni fisiologiche globali (per esempio, REM e NREM) o singoli indici fisiologici, valutati sull'insieme dell'episodio di sonno, per correlarli con aspetti del racconto dell'attività mentale ottenuto al risveglio del mattino.

Secondo alcuni autori, sarebbero i fenomeni neurovegetativi quali l'alterazione del ritmo cardiaco e respiratorio a permettere la possibilità di ricordare, al mattino, l'esperienza mentale del sonno (Snyder et al., 1964) e il vissuto emotivo che l'accompagna (Snyder et al., 1964; Fisher, 1965; Karacan et al., 1966).

Con la tecnica del risveglio provocato, il ricordo del sogno è stato messo in relazione con le attività fisiologiche precedenti il risveglio, sia attività singole che patterns complessi quali quelli che definiscono gli stati di sonno.

La scoperta del sonno REM ha spinto inizialmente a ipotizzare che fosse proprio questo tipo di sonno, così particolare per aspetti fisiologici e neurovegetativi, a contenere delle attività fisiologiche decisive per la produzione del sogno (così come il sonno REM fu ritenuto determinante per il ruolo del sonno nei processi mnestici: vedi paragrafo 4.5.1).

Nel 1966, Fisher, sulla base della registrazione dell'erezione del pene, propose una relazione fra questa (che abitualmente avviene spontaneamente nel sonno REM) e il contenuto sessuale del racconto del sogno al risveglio.

I movimenti oculari rapidi (MOR) sono stati la variabile più sovente presa in considerazione. In particolare, è stata supposta una relazione con le immagini della scena onirica. Esistono noti resoconti aneddotici per i quali i movimenti oculari rapidi tradurrebbero l'«esplorazione» visiva dell'ambiente nel corso della scena sognata. Tra questi, l'esempio di movimenti oculari sul piano orizzontale che corrispondono in apparenza agli spostamenti di una palla da tennis nel racconto di un soggetto che descriveva una partita di tennis (Roffwarg et al., 1962). In un altro esperimento, citato da Bertini (2003), un soggetto svegliato dopo 15 minuti di inattività oculare seguita da ampi MOR con direzione de- stra-sinistra, ha raccontato di aver sognato un lungo periodo di guida con gli occhi fissi sulla strada e sulla macchina che lo precedeva, fino all'arrivo a un incrocio in cui si era reso conto del sopraggiungere di una macchina proveniente da sinistra.

E’ stata anche proposta la relazione del sogno con le caratteristiche dell'attività cerebrale osservata grazie alla registrazione elettroencefalografica. Goodenough e coli. (1959) hanno messo in evidenza un rapporto di proporzionalità fra la quantità di attività alfa dell'EEG (la cui banda di frequenza è compresa fra 8 e 12 Hertz) presente nel corso del sonno REM e il ricordo del sogno dopo risveglio provocato.

L'attività EEG desincronizzata del sonno REM è stata considerata come essenziale per un alto livello di «efficienza corticale», e quindi di produzione mentale, da Ephron e Carrington (1966). Invece, alcune attività EEG del sonno NREM, quali i fusi e l'attività delta, sono state messe in relazione con l'attenuazione del ricordo di attività mentale, in quanto condizionerebbero l'arrivo dei messaggi alla corteccia (Rechtschaffen et al., 1963).

D'altra parte, alcune qualità espressive dei racconti sono state collegate con caratteristiche di attività fisiologiche individuali presenti nei due tipi di sonno.

Ai fenomeni neurovegetativi tipici del sonno REM (irregolarità cardiaca e respiratoria) sono stati attribuiti i vissuti emozionalmente intensi di racconti dopo risveglio in questo tipo di sonno (Snyder et al., 1964).

Parallelamente a questi risultati ottenuti nell'uomo, sono stati condotti esperimenti sull'animale (sul gatto) che hanno mostrato comportamenti particolari in seguito a lesioni delle strutture che sono implicate nei meccanismi che generano il sonno REM.

Sastre e Jouvet (1979) hanno mostrato nel gatto, in seguito a lesioni sperimentali del locus cœruleus, cioè di quel nucleo situato nel tronco cerebrale che controlla l'atonia posturale del sonno REM, comportamenti stereotipati specie-specifici (quali, per esempio, comportamenti predatori, aggressivi, esplorativi, di fuga, di rassetto) che sono stati interpretati come il «sogno» dell'animale.

Un'altra attività fisiologica considerata in rapporto al sogno è costituita dalle punte ponto-genicolo-occipitali (PGO). Queste, che si propagano nel gatto dal ponte alla corteccia occipitale, sono state considerate le espressioni delle «allucinazioni visive» del sogno (Roffwarg, 1975).

Accanto alle ricerche che abbiamo citato, che esplorano attività fisiologiche individuali in relazione al sogno, concentrandosi su quelle del sonno REM, ce ne sono altre, molto numerose, che hanno cercato di mettere in relazione il resoconto verbale con i due tipi di sonno nella loro globalità, in un primo tempo con il sonno REM, e successivamente anche con il sonno NREM (e confronto fra i due).

Per ciò che riguarda il resoconto verbale, sono state prese in considerazione prima la sua presenza/assenza e poi le caratteristiche specifiche, valutate attraverso gli strumenti di analisi di cui abbiamo parlato precedentemente.

Come è già stato ricordato, il risveglio provocato in sonno REM ha permesso a Dement e Kleitman (1957) di trovare resoconti di sogni nell'80% dei casi, contro il solo 7% di risvegli in sonno NREM.

È sopravvenuto in seguito David Foulkes, il quale ha modificato la consegna ai soggetti da «Cosa stavi sognando prima del risveglio?» a «Cosa ti passava per la mente prima del risveglio?» (Foulkes, 1962). Come risultato, la percentuale di ricordo di sogno dopo risvegli in sonno NREM ha oltrepassato il 60%, avvicinandosi a quella ottenuta dopo risvegli in sonno REM. A questa prima ricerca ne sono seguite altre che hanno utilizzato lo stesso tipo di consegna con risultati analoghi.

La presenza di risvegli e di resoconti anche dopo sonno NREM ha spinto molti ricercatori, prima di tutti lo stesso Foulkes, a cercare di confrontare le caratteristiche qualitative dei due tipi di racconti. Dopo risveglio in sonno REM il racconto è caratterizzato da scene ricche di immagini, soprattutto visive, vivide, con partecipazione emotiva. I resoconti dopo risveglio in sonno NREM, invece, sono stati descritti come caratterizzati da una forma di pensiero astratto, senza risonanza emotiva, riferentisi a fatti della vita quotidiana (Foulkes 1962 e 1966; Rechtschaffen et al., 1963).

L'analisi delle componenti qualitative del «sogno REM» e del «sogno NREM» è stata fatta utilizzando anche tecniche di tipo linguistico (vedi il paragrafo 3.4.2).

Il confronto dettagliato effettuato da Antrobus (1983) fra i resoconti dopo risveglio sperimentale in sonno REM o nello stadio 2 del sonno NREM mostra che l'elemento che distingue maggiormente i due tipi di sogno è il numero di unità linguistiche, più elevato nei racconti di sogno dopo risveglio da sonno REM. Meno rilevanti appaiono le differenze riguardanti la frequenza di parole relative a dimensioni quali l'immaginazione visiva o la partecipazione emotiva del soggetto.

È stato successivamente confermato da Foulkes e Schmidt (1983) e da Cavallero e coll. (1990) che i resoconti da sonno REM sono in media più lunghi, anche se questi autori riportano la presenza di resoconti di sogni in sonno NREM altrettanto, o persino più lunghi, di quelli in sonno REM. Inoltre, lo stesso gruppo di autori ha notato che differenze qualitative, riguardanti le fonti di memoria usate per la generazione del sogno (ossia, materiale episodico utilizzato come fonte di sogni più all'addormentamento che in sonno REM, materiale semantico utilizzato come fonte di sogni più in sonno REM che in sonno NREM), si annullano quando si controlla la lunghezza dei resoconti (Foulkes e Schmidt, 1983; Cavallero et al., 1992).

L'utilizzazione di tecniche di analisi improntate alla grammatica generativo-trasformazionale (Chomsky, 1957) ha mostrato strutture simili dei racconti nei due tipi di sonno (Salzarulo e Cipolli, 1979). Così come nello studio successivo di Antrobus (1983), anche in questo le differenze riguardano la lunghezza dei resoconti, che è maggiore in sonno REM. Alla maggiore lunghezza corrisponde anche una più elevata complessità della struttura linguistica; ciò rimanda ad una probabile maggiore consolidazione dell'attività mentale prodotta, aspetto sul quale ritorneremo discutendo del ricordo del sogno.

Dal confronto NREM-REM si è passati poi, in alcuni lavori dello stesso Foulkes con Molinari (Molinari e Foulkes, 1969), al confronto tra attività fasiche e toniche; le caratteristiche precedentemente attribuite al sonno REM sono state «trasferite» alle attività fasiche (per esempio, MOR) e quelle del sonno NREM alle attività toniche (per esempio, EEG). Secondo Foulkes e Molinari, i resoconti di sogni dopo risveglio da sonno REM-fasico (con MOR) sono più ricchi in esperienze visive di quelli ottenuti dopo risveglio da sonno REM-tonico (senza MOR). Bisogna aggiungere però, come segnalato recentemente dallo stesso Foulkes (1996a), che questi risultati non sono stati replicati in modo convincente.

3.4.5. Considerazioni metodologiche e teoriche sugli studi psicofisiologici

Dov'è il sogno nel sonno? Questa è la domanda alla quale in molti casi l'approccio psicofisiologico ha cercato di rispondere con gli indici e le metodiche di cui abbiamo parlato (soprattutto con risvegli provocati in un certo tipo di sonno) e con i risultati che abbiamo sintetizzato, e infine, come vedremo qui di seguito, con assunti teorici, espliciti o impliciti.

Il sonno REM ha rappresentato l'emblema attorno al quale, per molto tempo, si è sviluppato il rapporto sonno-sogno, con conseguenze pesanti sia in termini strettamente scientifici sia per le ricadute socio-culturali e didattiche.

Perché «sognare» solo in corrispondenza del sonno REM? Prima di tutto, perché inizialmente era stato trovato ricordo del sogno solo dopo risvegli in questo tipo di sonno. Ma a ciò si sono aggiunte giustificazioni poggiate su un certo modo di interpretare sia i dati neurofisiologici sia quelli psicologici.

L'identificazione del sogno, oltre che sull'evidenza di un racconto solo successivo a sonno REM (Dement e Kleitman, 1957), si poggiava - in modo molto naïf- sulla presenza di immagini visive e sulla bizzarria, da sempre (vedi Vaschide, 1911) considerata come caratteristica del sogno. Il fatto che alcuni autori (Snyder et al., 1967; Lairy, 1968) abbiano descritto i racconti dopo risveglio REM come piuttosto banali e privi di drammaticità non ha molto modificato la tendenza generale.

Il peso dell'interpretazione di una corrispondenza tra racconto ottenuto dopo sonno REM e sogno è stato tale che la fase REM è apparsa come indispensabile per l'elaborazione di una forma di attività mentale considerata come sogno e che - come abbiamo avuto modo di sottolineare (Salzarulo et al., 1973), e come è stato ribadito recentemente da Foulkes (1996a) - ha portato ad una «identità» dei due fenomeni che si ritrova anche nei termini. Infatti, molto spesso in letteratura si è usato il termine dreaming state per riferirsi al sonno REM (Hartmann, 1970), così come si sono interpretate le modificazioni quantitative del sonno REM e delle sue componenti (MOR) come corrispondenti a modificazioni del sogno.

Sulla relazione tra MOR e immagini visive del sogno si possono muovere obiezioni sostenute da vari argomenti. Tra l'altro, si può ricordare la presenza di sonno REM e di MOR in soggetti ciechi dalla nascita (Amadeo e Gomez, 1966; Gross et al., 1965), così come nei gatti decorticati (Jouvet e Jouvet, 1963), che non hanno immagini visive, e nei neonati (Monod e Pajot, 1965; Roffwarg et al., 1966). Inoltre, è stata dimostrata la presenza di movimenti oculari «stereotipati» destra-sinistra e sinistra-destra indipendenti dal contenuto (Salzarulo et al., 1973). A ciò si aggiunge una considerazione epistemologica. L'utilizzazione di un indice fisiologico, quale quello dei MOR, di cui sono noti in veglia i legami con i processi percettivi e rappresentativi, serve per concludere che anche i processi psicologici sono gli stessi in veglia e in sonno. Questo modo di procedere, d'altronde, si ritrova anche per altri indici fisiologici.

L'altra attività fisiologica che è stata legata alle immagini visive del sogno è costituita dalle punte PGO, nel caso delle quali è stato utilizzato il termine di allucinazione, che rinvia al campo della psicopatologia (Dement et al., 1970; Roffwarg, 1975). Infatti, per questi autori la presenza delle PGO del sonno REM non riguarda più solo la corrispondenza con immagini visive, ma anche il sogno come equivalente di delirio. Questa convinzione si basa sulla presenza di PGO nella veglia del gatto trattato con PCPA (Para-ChlorPhenilAlanine, sostanza che sopprime le PGO nel sonno REM per «trasferirle» nella veglia) accompagnata da disturbi comportamentali interpretati come degli analoghi di un disturbo mentale: seguendo questa linea interpretativa il delirio è considerato un sogno da svegli. Questo modello diventa anche, come osservato da Ey e coll. (1975), un modo per rendere conto delle psicosi.

Questa tematica ha appassionato per lungo tempo psicopatologi e filosofi, tuttavia l'interpretazione proposta dagli autori precedenti appare molto discutibile. Prima di tutto pone il problema del trasferimento all'uomo dei dati, sia fisiologici che comportamentali, ottenuti nell'animale. Ricordiamo, per esempio, che l'esistenza di PGO nella corteccia visiva dei primati, e in particolare dell'uomo, è lungi dall'essere provata (Salzarulo et al., 1975). Allo stesso modo è discutibile l'ipotesi formulata da Sastre e Jouvet (1979) di una stretta relazione tra REM e sogno nell'uomo a partire dalle manifestazioni comportamentali del gatto dopo la distruzione del locus cceruleus. In secondo luogo, nella sintomatologia psicotica non è costante la compresenza di allucinazioni e delirio. Inoltre, i sogni raccolti dopo sonno REM nei malati schizofrenici non contengono abitualmente elementi allucinatori o deliranti: queste ultime due osservazioni inducono Ey e coll. (1975, p. 81) a ritenere improbabile una relazione tra elementi fasici (MOR, PGO) del sonno REM, immagini oniriche e allucinazioni.

L'idea che il sogno abbia elementi in comune con i sintomi presenti in patologie del SNC è riapparsa recentemente nella letteratura scientifica. Schwartz e Maquet (2002) hanno osservato che molte caratteristiche peculiari del processo onirico sono condivise da sindromi neurologiche. I due autori citano, fra altri esempi, le identificazioni erronee di volti, comuni nel sogno ma caratteristiche anche della cosiddetta «sindrome di Fregoli», nonché il sognare «in bianco e nero», fenomeno che richiama il sintomo neurologico dell'acromatopsia. Secondo Schwartz e Maquet, questi fenomeni suggerirebbero un approccio neuropsicologico al sogno. Esso è fondato sulla possibilità di fare predizioni sulle aree cerebrali che si attiverebbero (e sarebbero responsabili) per talune caratteristiche formali del sogno e sulla successiva verifica di tali predizioni, attraverso tecniche di visualizzazione del SNC (Tomografia ad Emissione di Positroni = PET, Risonanza Magnetica Funzionale = fMRI) che consentono, anche durante il sonno, la mappatura dell'attività delle aree del cervello e la loro successiva associazione ai resoconti di sogno raccolti al risveglio. Va sottolineato che anche Schwartz e Maquet si soffermano unicamente sul sogno raccolto dopo risveglio in sonno REM. Forse con un eccesso di enfasi, essi concludono ambiziosamente il loro articolo scrivendo: «Complessivamente, questo approccio all'analisi del sogno potrebbe svelare, per la prima volta, autentici correlati cerebrali del sogno».

Il problema dell'identificazione del sogno in base a certe caratteristiche, come è stato ampiamente argomentato precedentemente da Salzarulo et al. (1973) e ribadito da Lemaine e coli. (1977), non è stato risolto con correttezza metodologica. La validità dei criteri di identificazione del sogno diventa ancor più importante, come vedremo in seguito, per il confronto tra resoconti ottenuti dopo sonno NREM vs. sonno REM.

La scoperta di resoconti di sogno anche dopo risveglio in sonno NREM ha complicato il rapporto sogno-sonno delineato dalle ricerche precedenti. La complicazione è venuta soprattutto dai tentativi di separare due forme di attività mentale (chiamiamola in questo modo per non utilizzare - vedremo perché - il termine «sogno» in questo contesto).

Se, dopo ciò che avevamo già evidenziato nel 1973 (Salzarulo et al.), l'insistenza con cui David Foulkes ha sottolineato la presenza di ricordo di attività mentale dopo risveglio da sonno NREM contribuirà, ma con fatica - si vedano le sue considerazioni nell'articolo del 1996a -, a mettere in dubbio l'equazione REM-sogno, lo statuto dell'attività mentale dei racconti NREM rispetto a quelli del sonno REM, resta però incerto e non chiaramente definito.

Le due forme di attività mentale, come abbiamo visto, sono quelle che vanno sotto il nome di dream-like e thought-like, riferite rispettivamente al sonno REM e a quello NREM (Foulkes et al., 1966). Si è introdotta così la possibilità che vi sia sì attività mentale in entrambi i tipi di sonno, ma che quella più vicina al sogno sia la dream-like riferita a sonno REM.

Ci siamo soffermati a lungo alcuni anni fa (Salzarulo et al., 1973 ) sulla discutibilità dei criteri e degli strumenti utilizzati per definire le due forme di attività mentale. Questa critica metteva in dubbio la possibilità, e anche il senso, di questa distinzione, e quindi la giustificazione di attribuire ad ognuno dei tipi di sonno caratteristiche mentali diverse. Ma il fatto più importante consiste non solo nell'avere introdotto nel terreno del sogno categorie la cui consistenza «psicologica» è poco chiara (vedi il termine thought), ma soprattutto nell'aver separato la mentazione ipnica in due forme, perdendo di vista quindi il sogno in quanto fenomeno globale. Ciò è stato fatto, a nostro avviso, per poter conciliare il versante psicologico con quello dicotomico del sonno: REM e NREM. E’ curioso, infatti, constatare come David Foulkes, che ha sovente difeso la priorità dello «psicologico» rispetto al «fisiologico», si lasci implicitamente condurre da una dicotomia fisiologica.

Rimane in effetti presente in molta letteratura una credenza, non espressa esplicitamente, secondo cui ad ogni attività neurofisiologica corrisponderebbe un'attività mentale particolare. Un'idea che si rivela in altre forme di categorizzazione dell'attività del sistema nervoso, quale la distinzione fasico-tonico: a questa, infatti, è stata fatta corrispondere da Molinari e Foulkes (1969) la distinzione «esperienza visiva primaria»-«elaborazione cognitiva secondaria». Siamo sempre in presenza di una nuova dicotomia, che porta verso una «atomizzazione» progressiva dei processi mentali, e in definitiva, del sogno.

Il ruolo di ognuno dei due tipi di sonno verrà successivamente rivisto in termini cognitivi, assegnando a ciascuno un diverso peso nei processi di memoria (Salzarulo e Cipolli, 1974; Cipolli et al., 1975; Salzarulo e Cipolli, 1979). Solo recentemente (Salzarulo, 2000) si è pensato ad una cooperazione tra i due tipi di sonno.

Gli apporti cognitivisti si sono ben guardati dal cercare delle caratteristiche distintive nei racconti e dal pensare che ad ogni tipo di sonno debba corrispondere un modo di produrre sogno oppure pensiero, collocando all'interno di ogni tipo di sonno un processo psicologico diverso. Questi studi si sono orientati, invece, verso l'analisi di processi fondamentali della psicologia, quali quelli della memoria, per vedere in che modo questi funzionano nei due tipi di sonno ed arrivano a «produrre» un sogno.

La problematica del ruolo rispettivo del sonno REM e del sonno NREM nella produzione del sogno, si ritrova sotto una terminologia che ancora una volta è di tipo fisiologico: il «generatore» (Nielsen, 2000). Vi sarebbe, cioè, un «motore» che dà luogo al sogno, che per alcuni sarebbe lo stesso nei due tipi di sonno, per altri diverso. Ma come funziona questo generatore, e come dovrebbe «produrre» il sogno?

La teoria del «generatore» unico, inizialmente proposta da Foulkes (1962), propone che il meccanismo di produzione del sogno, in sonno REM e sonno NREM, sia basato su processi comuni: a) attivazione della memoria; b) organizzazione del materiale raccolto dalle fonti di memoria in strutture narrative; c) interpretazione e critica della struttura del sogno da parte del sognatore stesso. Secondo Foulkes (1962), sarebbero la maggiore o minore disponibilità delle fonti di memoria e la più o meno alta capacità di organizzarle in strutture coerenti a determinare differenze nell'esperienza mentale dei due stati di sonno. Il sonno REM, infatti, caratterizzato da un maggior livello di attivazione corticale e neurovegetativa, consentirebbe un maggior grado di coerenza narrativa nell'organizzazione del materiale, ma soprattutto un più facile accesso alle fonti di memoria. Nel sonno NREM, invece, ad un'attivazione minore corrisponderebbero una minore organizzazione e un minor grado di coerenza e di interpretazione e critica.

La teoria del «doppio generatore» (Hobson, 1992; McCarley, 1994) è stata formulata a partire dall'originario modello di attivazione-sintesi (Hobson e McCarley, 1977, vedi anche il paragrafo 3.6) ed è fondata sull'osservazione delle differenze qualitative nei resoconti di sogni raccolti al risveglio da sonno NREM e sonno REM. Si assume che la produzione del sogno dipenda da meccanismi diversi nei due stati di sonno e si fa riferimento all'«isomorfismo mente-cervello», ovvero al fatto che le caratteristiche della fisiologia di ciascuno degli stati determini la qualità dell'esperienza mentale in essi contenuta (Mamelak e Hobson, 1989).

Successivamente, accurate osservazioni neuropsicologiche da parte di Solms (1997) hanno messo in discussione la teoria del doppio generatore. Questo autore ha mostrato che una lesione delle aree troncoencefaliche considerate da Hobson e McCarley come cruciali per la produzione del sogno in sonno REM non comprometteva l'attività onirica, mentre una lesione di aree quali il carrefour temporo-parieto-occipitale o i poli frontali dei ventricoli laterali determinava una perdita globale del sogno, indipendentemente dallo stato di sonno.

Il dibattito fra i sostenitori delle due teorie non ha ancora condotto ad una risposta soddisfacente. Nielsen (2000) hanno recentemente proposto un modello che intende conciliare le due teorie. Esso postula l'esistenza, all'interno del sonno NREM, di un sonno REM «mascherato» (covert iti inglese), ossia di attività fisiologiche tipiche del sonno REM, che sarebbero responsabili delle mentazioni anche in sonno NREM. Pare abbastanza evidente che si tratta, più che di una unificazione di due modelli, di un modo per spostare anche nel sonno NREM la citata equazione sogno = REM. Come tale, il contributo di Nielsen, che è stato criticato da molti autori, e non soltanto dai sostenitori della teoria del generatore singolo (vedi, per esempio, Bosinelli e Cicogna; Kahan; Rotenberg; Salzarulo: tutti nel numero speciale di Behavioural and Brain Sciences, 2000), non sembra spostare di molto i termini della questione.

3.5. L'utilizzo della psicoanalisi nello studio sperimentale del sogno

L'analisi dei metodi e dei risultati degli studi psicofisiologici non può prescindere dal ruolo che la psicoanalisi ha avuto o che le è stato attribuito.

La scoperta di tipo «neurofisiologico» del sonno REM e della sua associazione apparente (anche se non esclusiva, come abbiamo detto) con il sogno ha suscitato in molti la certezza di avere trovato l'attività del cervello che produce il sogno (alcuni hanno pensato anche di avere trovato il luogo: il tronco dell'encefalo!).

Riferirsi ad una teoria, quale quella psicoanalitica, che aveva dominato lo studio del sogno nei cinquant'anni precedenti, è stata una tentazione alla quale era difficile resistere. Coloro che hanno tentato questo confronto sono stati più spesso gli psicofisiologi che gli psicoanalisti, o psicoanalisti coinvolti in studi psicofisiologici.

La psicoanalisi è stata implicata in diversi modi.

Vi è stato un tentativo di mettere in relazione eventi fisiologici del sonno REM con funzioni mentali e concetti elaborati dalla psicoanalisi. Citiamo il concetto di «sogno guardiano del sonno», convalidato secondo alcuni autori (per esempio, Hawkins, 1970) dalla presenza di sonno REM dopo sonno NREM prima del nuovo episodio di sonno NREM. In realtà la fase REM è proprio quella che più facilmente porta al risveglio (vedi Akerstedt et al., 2002 per una rassegna): questa ipotesi non è quindi plausibile.

In questa prima modalità rientrano anche i numerosi tentativi di collegare sogno e pulsioni inconsce attraverso la presenza di certe caratteristiche delle attività neurovegetative (descritte nel capitolo 1) durante il sonno REM. È ben evidente che il concetto freudiano di «pulsione» inconscia nulla ha a che vedere con alterazioni del ritmo cardiaco o della pressione arteriosa!

Nella stessa direzione vanno le interpretazioni del rebound (rimbalzo) di sonno REM dopo privazione dello stesso come esprimente il «bisogno» di sogno: tutto, cioè, sempre basato sull'equazione sogno-sogno REM.

L'utilizzazione del modello tonico-fasico, dove il fasico è l'equivalente del sonno REM, porta alle stesse conseguenze: il ruolo di «scarica» istintuale viene attribuito alle «scariche» di punte PGO (l'elemento fasico). In questo caso anche il termine «scarica», comune ai due settori, viene utilizzato per valutare il rapporto neurofisiologia-psicoanalisi. Ancora una volta, però, il termine istintuale viene utilizzato ben diversamente che da Freud.

Un numero abbastanza consistente di lavori (vedi le citazioni in Salzarulo et al., 1973) ha chiamato in causa i due processi fondamentali del funzionamento psichico secondo la psicoanalisi: il processo primario e il processo secondario. L'assunzione di base è costituita dal legame tra sonno REM (e in particolare i MOR) e le immagini visive. Queste ultime esprimerebbero la soddisfazione allucinatoria del desiderio (cioè il sogno) che a sua volta, in termini freudiani, testimonia del funzionamento del processo primario, quindi dell'inconscio. In questo modo, come abbiamo già fatto notare trent'anni fa (Salzarulo et al., 1973), gli autori hanno pensato di trovare una base neurofisiologica allo stesso tempo al sogno, al processo primario e all'inconscio. Foulkes (1966) aggiunge che i racconti ottenuti dopo risveglio da sonno NREM sarebbero più «simili» al modo di operare del processo secondario, identificato come il «razionale quotidiano»: caratteristica che è più di tipo fenomenologico che psicoanalitico.

Anche in questo caso il percorso seguito è quello di trovare una localizzazione temporale a processi psichici quali il processo primario e il processo secondario. Manca, come faceva notare Jones (1970), un tentativo di rendere conto in termini neurofisiologici delle trasformazioni, ossia di ciò che viene chiamato il «lavoro del sogno».

Tra le «espressioni» del processo primario, peraltro, sono state proposte anche alcune manifestazioni mimiche presenti nel neonato durante il sonno attivo (Bourguignon, 1968).

Dove la psicoanalisi è stata «utilizzata» in modo pervasivo è nell'analisi dei racconti ottenuti dopo il risveglio, in particolare in sonno REM. In questo caso la psicoanalisi è diventata uno «strumento» per mettere in evidenza, nei racconti «sperimentali», processi che Freud ha descritto nel sogno.

Le scale di analisi di contenuto, di cui abbiamo parlato precedentemente (vedi il paragrafo 3.4.3), sono «infiltrate» di termini che «flirtano» con la psicoanalisi. Si vedano categorie quali Forza dell'Io, Oralità, Genitalità, Masochismo, Regressione, Angoscia di castrazione, ecc., che sono determinate da «simboli-chiave» piuttosto ambigui: per esempio, la categoria Oralità, definita dalla presenza, nel racconto, di un'espressione quale «ho mangiato degli hamburger». In altri casi, una categoria quale Angoscia di castrazione viene identificata a partire da una frase quale «avevo un'emicrania», quindi attraverso un'interpretazione generica al di fuori di ogni relazione analitica transferenziale.

Aggiungiamo, poi, che l'utilizzazione delle categorie «psicoanalitiche», così identificate, è fatta in vista di una quantificazione delle caratteristiche di contenuto dei «racconti di sogni»: si tratta, come abbiamo già fatto notare (Salzarulo et al.,1973), di una psicometria di un racconto con fini di valutazione statistica dei confronti tra situazioni diverse. E’ evidente che Freud non ha mai avuto la preoccupazione della quantificazione.

Ciò che sottende una simile utilizzazione della psicoanalisi in un contesto sperimentale è l'idea che vi sia un dizionario universale di simboli che si trovano espressi nelle forme verbali dei sogni; da queste «parole» (contenuto manifesto) si potrebbe passare poi al contenuto «latente» del sogno. In realtà, questo passaggio dal contenuto manifesto (il racconto del sogno) al contenuto latente non può essere effettuato, come si è già detto, che attraverso la relazione trasferenziale con l'analista: di questa relazione, invece, non vi è traccia negli approcci sperimentali del sogno.

La psicoanalisi ha beneficiato degli studi psicofisiologici del sogno? Skinner (1970) ritiene di no: in particolare per ciò che riguarda l'approccio psicoanalitico dei sogni nel corso della terapia.

Psicofisiologia del sogno e metapsicologia rimangono, secondo Salzarulo et al. (1973), due campi della realtà che sono stati sovrapposti artificiosamente per soddisfare desideri integrativi o riduzionisti.

3.6. Il ricordo del sogno

Lo studio del ricordo dei sogni potrebbe essere in realtà quello del non-ricordo dei sogni.

In effetti, molto spesso gruppi di soggetti o lo stesso soggetto in vari momenti, non ricordano al mattino di avere sognato. Sappiamo ora che si sogna ogni notte ed è quindi legittimo chiederci perché il ricordo viene a mancare quando ci si sveglia al mattino.

A questo interrogativo sono state date da molto tempo risposte di vario tipo, con argomenti sia di tipo psicologico che fisiologico.

Già all'inizio del '900, Vaschide (1911) aveva sottolineato l'importanza sia del momento della notte in cui si raccolgono i sogni che della modalità del risveglio. A proposito di quest'ultimo aspetto, egli parlava di «amnesia del risveglio» per i sogni, amnesia che può durare anche alcuni minuti. Ancora una volta, Vaschide ha anticipato aspetti che sono stati ripresi di recente: oggi siamo a conoscenza del fenomeno chiamato «inerzia del sonno», di cui parleremo nel capitolo 5, che parzialmente rende conto delle difficoltà, in alcune circostanze, a recuperare il materiale in memoria subito dopo il risveglio.

Vi sono all'evidenza delle differenze interindividuali nel ricordo dei sogni. Da una parte, soggetti che ricordano abitualmente i sogni (dream recallers, nella terminologia di lingua inglese); dall'altra soggetti che non ricordano mai, o pochissime volte, i propri sogni.

La ricerca della motivazione per cui certi sogni sono difficilmente ricordati si è orientata, soprattutto negli Stati Uniti, verso l'analisi del loro contenuto. In questo caso, il punto di partenza deve essere un resoconto (report) che testimonia del ricordo del sogno. La sua analisi, assumendo che caratteristiche psicologiche del report facilitino il ricordo dell'esperienza originaria, potrebbe mettere in evidenza una relazione fra queste e la frequenza del recali. Ovviamente, come sottolineano Koulack e Goodenough (1976), il confronto fra le caratteristiche del sogno ricordato e quelle del sogno dimenticato è per definizione impossibile, dal momento che di quest'ultimo non esiste resoconto. Tuttavia, alcuni autori (Barber, 1969; Trinder e Kramer, 1971) hanno fornito risultati interessanti, introducendo un artificio sperimentale, consistito nel chiedere ai soggetti di ri-ricordare il sogno precedentemente ricordato e narrato. I sogni più ricchi in termini di novità, bizzarria, intensità, cioè con maggiore «salienza», sono quelli più facili da ricordare una seconda volta (Trinder e Kramer, 1971).

Che in certi sogni vi sia qualcosa più difficile da ricordare è suggerito dai risultati di uno studio dello stesso Barber (1969). Un soggetto che ha per compito quello di ricordare un sogno prodotto da un altro soggetto, avrà maggiore difficoltà quando è un non-reporter.

Da questi studi appare quindi che la salienza è una caratteristica che può rendere conto delle differenze interindividuali quali quelle fra reporters vs. non-reporters.

L'utilizzazione di variabili fisiologiche, tipica dell'approccio nato con gli studi di Dement e Kleitman (1957), ha portato alcuni autori (Snyder, 1970; Hobson et al., 1965) ad enfatizzare il legame tra sogno ed eventi fisiologici del sonno. Anche la frequenza del ricordo del sogno e alcune sue caratteristiche sono state messe in relazione con eventi fisiologici: è stato proposto che la densità dei movimenti oculari potesse essere correlata con la «bizzarria» (Goodenough et al., 1965) o con la «vividezza» (Verdone, 1965) del resoconto. È stata inoltre mostrata l'esistenza di un legame fra irregolarità della frequenza respiratoria e minore frequenza del ricordo di sogno del risveglio (Goodenough et al., 1974). Questi risultati, però, non sono stati sempre confermati sul piano sperimentale e sono discutibili, come abbiamo già ricordato, su quello metodologico (Salzarulo et al., 1973).

Il ruolo della rimozione è stato al centro di numerosi studi ed elaborazioni teoriche, soprattutto negli Stati Uniti (ad esempio, Whitman et al., 1963). In questo caso, il significato di rimozione è però diverso da quello elaborato da Freud. Negli studi a cui facciamo allusione il concetto di rimozione è valutato attraverso approcci di vario tipo, che includono questionari, test proiettivi, dimensioni dello stile cognitivo.

Sono stati gli approcci di stile cognitivo che hanno portato Witkin (1970) a identificare i soggetti dipendenti dal campo, utilizzatori della rimozione come difesa predominante, quali non-re- callers. Studi successivi hanno mostrato però che il «non-ricordo» dei sogni nei soggetti «campo-dipendenti» è anche in relazione con il modo in cui si svegliano. Un risveglio brusco da sonno REM è in grado di permettere il ricordo del sogno anche a soggetti definiti quali «campo-dipendenti» e non-recallers. Quindi, come fa notare Goodenough (1978, p. 128), «il ruolo della rimozione come spiegazione delle differenze individuali nella frequenza di racconti di sogno non è stato chiaramente stabilito».

Sono stati concepiti studi correlazionali per analizzare i rapporti fra tratti di personalità e contenuti del sogno. Tra le ipotesi, vi è quella secondo cui gli individui che abitualmente ricordano i sogni possano essere anche coloro che hanno una spiccata attitudine a prestare attenzione agli eventi della loro vita interiore (con termine inglese, la inner life), come i sogni appunto, sia al momento della loro produzione che del loro richiamo (Schonbar, 1959 e 1965; Goodenough, 1978).

Questo ci porta ad evocare le variabili motivazionali, il cui ruolo è stato sottolineato da alcune ricerche condotte negli Stati Uniti da Cohen e Wolfe (1973) e in Europa da Strauch (1969). In seguito ad istruzioni «motivanti», aumenta il numero di sogni ricordati, forse in seguito alla maggiore attenzione al momento del risveglio (Goodenough, 1978).

Questo tipo di spiegazione si accorda almeno in parte con i risultati di un altro esperimento condotto da Cohen e Wolfe (1973): ai soggetti veniva richiesto di telefonare subito dopo il risveglio mattutino al servizio meteorologico e di annotare le previsioni subito prima di scrivere il resoconto del sogno. Questa condizione portava ad una notevole diminuzione della frequenza di ricordo del sogno.

Lo spostamento dell'attenzione può quindi essere una causa di questo effetto, ma lo può essere anche - come pensano Cohen (1974) e Goodenough e coli. (1974) - l'ansia.

Vi è, però, un'altra ipotesi, che fa riferimento all'interferenza quale fattore che agisce sui processi mnestici. Questo ci porta a considerare un altro gruppo di fattori «ovviamente» proponibili per spiegare il ricordo del sogno e la sua mancanza, vale a dire, i processi di memoria.

Esistono almeno due tappe fondamentali da tenere presenti quando si esamina il ruolo dei processi mnestici nel ricordo del sogno: la consolidazione del materiale prodotto durante il sonno e il suo recupero dopo il risveglio.

La teoria di arousal-retrieval (vedi paragrafo 4.3) afferma che un materiale difficilmente può essere trasferito da un magazzino «a breve termine» a quello «a lungo termine» durante il sonno e quindi diventare realmente persistente (Koulack e Goodenough, 1976). Se il sogno, prodotto nel sonno, non è seguito da un certo periodo di attivazione fisiologica, non sarà consolidato e quindi non potrà essere ricordato. Sul tempo necessario al passaggio dalla memoria «a breve termine» a quella «a lungo termine», i pareri degli studiosi della memoria non sono univoci; a maggior ragione, è ancora meno chiaro quale sia questo percorso nel sonno.

L'incapacità o la difficoltà di recuperare il materiale onirico quale spiegazione del mancato ricordo del sogno, è stata evocata da Foulkes (1966) e successivamente da uno di noi in vari articoli insieme a Cipolli (Cipolli e Salzarulo, 1975; Cipolli et al., 1984 e 1992).

Sul ruolo del recupero nel ricordo del sogno è intervenuto anche Goodenough (1978), proponendo che il materiale onirico si trovi nel magazzino a lungo termine, ma sotto una forma di difficile accesso a causa del tipo particolare di trattamento dell'informazione che avviene durante il sonno. In questo caso viene sottolineato il ruolo del recupero in funzione delle caratteristiche del materiale. In accordo con quanto proposto anni prima da lui stesso e da Koulack, anche in questo caso Goodenough (1978, p. 138) afferma che la consolidazione, cioè il passaggio nella memoria a lungo termine, può avvenire soltanto nei primissimi momenti dopo il risveglio, cioè fuori dal sonno.

Attraverso una lunga serie di esperimenti nei quali veniva utilizzata una tecnica psicolinguistica di analisi dei racconti dei sogni, Cipolli e Salzarulo hanno fornito una descrizione delle componenti quantificabili dei resoconti ed hanno proposto alcune spiegazioni sulla discrepanza tra produzione del sogno durante il sonno e ricordo mattutino. Questi esperimenti prevedevano, come elemento comune, il risveglio del soggetto durante il sonno eseguito in laboratorio e il confronto tra il racconto ottenuto e le risposte date al mattino.

Due ricerche effettuate con questa metodologia mostrano che in realtà sono conservate in memoria anche alcune delle esperienze mentali del sonno che sono inizialmente inaccessibili e, quindi, apparentemente dimenticate.

In un primo studio (Cipolli et al., 1984), ai soggetti che al mattino non riuscivano a richiamare spontaneamente il resoconto del sogno fornito al risveglio sperimentale notturno, veniva somministrato un probe, ossia un indizio, generalmente rappresentato dalla prima unità linguistica del racconto notturno. Utilizzando tale indizio, i soggetti riuscivano a ricordare il sogno e a fornire al mattino resoconti di lunghezza e organizzazione linguistica simile a quella dei resoconti notturni.

In un secondo studio (Cipolli et al., 1992) è stato dimostrato che la verbalizzazione del resoconto notturno non facilitava il recupero del materiale al mattino.

In supporto del ruolo della consolidazione, è stato visto che sono le unità linguistiche più complesse (e quindi meglio consolidate) quelle che vengono più facilmente «riprodotte» nel ricordo del mattino; le unità linguistiche presenti sia nel sogno notturno che nel ricordo del mattino sono circa un terzo di quelle notturne (Cipolli et al., 1984 e 1992). Ciò vuol dire che quando ricordiamo un sogno al mattino, ne ricordiamo solo una parte e attorno a questa viene costruito un racconto. Il ricordo del mattino è quindi una ricostruzione, con alcuni «punti fermi» che riappaiono in entrambi i racconti, quello notturno e quello del mattino.

Cosa possiamo dedurre da questi risultati? Innanzitutto, la constatazione, a nostro avviso fondamentale, che il materiale onirico, a differenza di ciò che sostenevano Koulack e Goodenough, può essere già consolidato durante il sonno, anche se non necessariamente nella sua interezza, e non nello stesso modo in ogni momento del sonno. Si ricordi a tale proposito, per ciò che riguarda il ruolo degli stati di sonno, che le esperienze mentali elaborate in sonno REM sono più accessibili al recupero subito dopo il risveglio rispetto a quelle elaborate in sonno NREM (Salzarulo e Cipolli, 1974 e 1979): si può presumere, quindi, che siano state maggiormente consolidate durante il sonno.

In secondo luogo, la indisponibilità al mattino di materiale che era presente nel resoconto notturno non è dovuta al decadimento, ma alle interferenze fra contenuti di differenti esperienze mentali della stessa notte, come dimostrato dai resoconti notturni non rievocati spontaneamente al mattino, ma rievocati grazie alla somministrazione di probes.

Tra sonno REM e NREM non sono state rilevate differenze sostanziali per la frequenza dei resoconti e la loro lunghezza, né per la lunghezza delle frasi, per la proporzione di frasi relate alla veglia, per le intrusioni. Sono invece più frequenti nei resoconti NREM, rispetto a quelli REM, pause e rallentamenti prima e dopo le intrusioni di materiale relativo alla veglia, forse legati a una difficoltà nella pianificazione semantica (Salzarulo e Cipolli, 1979). Secondo questi autori, i due tipi di sonno non sono diversi per la produzione di contenuti specifici o per la difficoltà della loro codifica verbale, ma per il diverso grado di consolidazione in memoria del materiale onirico, inferiore durante il sonno NREM, che renderebbe più difficile il richiamo al risveglio.

Altre informazioni importanti sui rapporti esistenti fra sogno e processi di memoria provengono da quegli approcci che hanno analizzato gli effetti sul processo onirico di stimoli presentati prima o durante il sonno.

Se prima del sonno si sottopone al soggetto una frase complessa, priva di senso, si troverà frequente traccia di questo materiale nei resoconti di sogno ottenuti dopo risvegli notturni, sotto forma di parole, più o meno strettamente associate, che costituiscono le «incorporazioni» o «pseudoincorporazioni» (Cipolli et al., 1992).

Recentemente, il gruppo di Stickgold e Hobson a Boston ha dedicato molta attenzione alla questione dei rapporti esistenti fra sogno e processi di memoria durante il sonno, proponendo che i sogni siano la manifestazione di processi associativi fra memorie, che si realizzano mentre un «sistema cerebrale multilivello» è attivo per la consolidazione e la rielaborazione in sonno delle memorie stesse (Stickgold et al., 2001). Gli autori sostengono inoltre che le differenti strutture attivate per i processi di memoria nei diversi momenti del sonno (addormentamento, sonno REM, sonno NREM) sono responsabili delle differenti caratteristiche fra i sogni raccolti in loro corrispondenza.

Se però Stickgold e coll. discutono le caratteristiche dei sogni ottenuti in addormentamento e in sonno REM, essi tralasciano completamente i sogni ottenuti in sonno NREM. Come gli stessi autori notano, il loro modello rappresenta sostanzialmente una revisione della vecchia teoria di «attivazione-sintesi» di Hobson e McCarley (1977), secondo la quale i sogni in sonno REM hanno origine da un'attività neuronale caotica a livello troncoencefalico alla quale il cervello, per quanto possibile, attribuisce significato e con cui costruisce una «pseudonarrazione». Siamo ancora distanti da una «teoria del sogno» completa ed esaustiva.

I sogni sono costruzioni molto complesse, che implicano la rielaborazione in memoria e la trasformazione di eventi sia interni che esterni (Lairy e Salzarulo, 1975a), concetto recentemente ribadito anche da Portas in una breve nota (2001). La costruzione di adeguati protocolli sperimentali per lo studio dei processi implicati nel sogno è quindi resa particolarmente difficile dalla necessità di prendere in considerazione queste trasformazioni, necessità sorprendentemente negletta da Stickgold e Hobson, persino in alcune tra le loro più esaurienti rassegne sulla «mentazio- ne» in sonno (per esempio, Stickgold et al., 2001).

Infine, vi è un'altra interpretazione del mancato ricordo dopo risveglio che fa riferimento all'apprendimento stato-dipendente. Secondo questa prospettiva, un «prodotto» mentale elaborato durante il sonno è difficilmente recuperabile in un altro stato, cioè la veglia. Stimoli somministrati durante il sonno rimarrebbero accessibili solo durante un sonno successivo (Evans et al., 1969).

3.7. L’attività mentale alle transizioni di stato

Le ricerche psicofisiologiche non si sono limitate a «sondare» gli stati REM e NREM per evidenziare la presenza del sogno. Alcuni autori si sono interessati a ciò che succede nei passaggi da uno stato all'altro: veglia-sonno e sonno-veglia, REM-NREM e NREM- REM.

In questo modo, in alcuni casi si è voluto sapere dove comincia, o dove finisce, il sogno (vedi, rispettivamente, i due sottoparagrafi che seguono), in altri casi, se in corrispondenza delle transizioni tra i due stati del sonno si producano forme di attività mentali particolari.

3.7.1. Transizioni veglia-sonno

La presenza di immagini con caratteristiche particolari al momento dell'addormentamento è stata riportata ben prima delle indagini di tipo psicofisiologico da autori che le hanno descritte in quanto esperienze soggettive proprie o di soggetti a loro noti. L'esperienza di questo tipo si riferisce a risvegli spontanei, o meglio, ad interruzioni spontanee del processo di addormentamento. Si tratta di immagini visive, spesso colorate o con elementi figurativi molto netti, senza emozione, quasi sempre statiche, dimenticate rapidamente, senza riferimenti spaziali, secondo Jean-Paul Sartre (1940). Le esperienze acustiche sembrano meno frequenti, mentre appaiono talvolta manifestazioni nel campo della somestesia. Queste esperienze sono state etichettate con il termine di «immagini ipnagogiche» (Fischgold e Safar, 1968) o «allucinazioni ipnagogiche» (Maury, 1865; Va- schide, 1911), anche se il termine di allucinazione è in questo caso improprio, in quanto si tratta di fenomeni di cui il soggetto riconosce la non realtà.

La registrazione poligrafica ha potuto accertare che queste esperienze si producono quando il ritmo alfa sta scomparendo e il tracciato è caratterizzato da una prevalenza di ritmo theta e talvolta da movimenti oculari lenti (Fischgold e Safar, 1968). Si tratta, quindi, di attività fisiologiche ben diverse da quelle del sonno REM ed anche del sonno NREM, nei quali era stata messa in evidenza la presenza di sogni.

Il rapporto di queste esperienze mentali con il sogno è stato oggetto di discussioni sia prima che dopo l'avvento della psicofisiologia del sonno. La presenza di «immagini», essenzialmente visive, ha costituito il nodo attorno al quale si è argomentato.

Per coloro per i quali queste immagini sono in sé rappresentative del sogno, le esperienze mentali all'addormentamento sono un «tipo» di sogno. Embrionario, secondo alcuni (Maury) o «incompleto» o «abortito» secondo altri (Sartre). La somiglianza con il sogno si accentua quando le immagini si organizzano in temi più o meno complessi, difficili da distinguere dal sogno vero e proprio, secondo Fischgold e Safar (1968). Questi autori considerano quindi le esperienze mentali dell'addormentamento come le prime espressioni del sogno, che si verifica anche in momenti successivi del sonno NREM, e sottolineano implicitamente in questo modo che «il sogno non è solo REM» (Salzarulo et al., 2003). In queste argomentazioni, però, non vi è menzione delle ragioni per cui le esperienze mentali dell'addormentamento e di altre fasi del sonno siano riconducibili ad un unico «tipo» di esperienza quale il sogno. Come si diceva più sopra, la presenza di immagini è il motivo che porta all'assimilazione, se non all'unificazione, dei vari tipi di attività mentale legati al sonno.

Le conclusioni di Foulkes e Vogel (1965) vanno nella stessa direzione. Questi autori parlano di «sogni ipnagogici», che considerano analoghi ai sogni REM. L'analogia riguarda la presenza, oltre che di immagini, anche di elementi «drammatici e fantastici» all'interno di un vero e proprio racconto, anche se più breve, di molti «sogni REM». Foulkes e Vogel si discostano da Fischgold e Sa- far e dagli altri autori già citati per l'attribuzione di drammaticità alle esperienze ipnagogiche, riprendendo, tra l'altro, categorizza- zioni già discusse a proposito dei resoconti REM e NREM. In questo senso, la «parentela» delle esperienze ipnagogiche con i racconti ottenuti rispettivamente dopo sonno REM e NREM non è chiara, visto che l'addormentamento costituisce, almeno nei soggetti normali, la via d'accesso al sonno NREM, mentre invece viene evocata la mentazione relativa al sonno REM. Tutti questi autori, però, sono a favore di una presenza «continua» di attività mentale durante il periodo che va dall'addormentamento al sonno REM.

3.7.2. Transizioni sonno-veglia

Esperienze mentali simili a quelle dell'addormentamento, ma meno frequenti, sono state descritte anche con riferimento alla transizione sonno-veglia (cioè al risveglio) e denominate «allucinazioni ipnopompiche».

Il risveglio, però, è stato oggetto di interesse soprattutto per ciò che riguarda il momento in cui si elabora il sogno (vedi riferimenti in Salzarulo, 1999). Alla fine del 1800, Goblot (1896) suggerì che il sogno sia generato in fase di risveglio e che si sviluppi del tutto nel periodo di transizione tra il sonno e la veglia (ipno- pompico), transizione che in condizioni spontanee non è mai istantanea e si articola in un lasso di tempo apprezzabile durante il quale l'organismo passa «dal torpore all'attività». In altri termini, il sogno sarebbe sia prodotto, sia recuperato durante il risveglio. Per confortare questa ipotesi, Goblot faceva soprattutto riferimento a due osservazioni, in relazione ai suoi stessi sogni. La prima riguardava l'inserimento costante e graduale, nello svolgersi del sogno, di elementi della realtà ambientale («il rettangolo chiaro della finestra, il rumore di una porta che si apre»). La seconda, la mancanza di resoconti di sogni che non si concludano con una scena/evento che causano il risveglio, quest'ultima, provvista di un'intensità emotiva dovuta al maggiore livello di attivazione del soggetto quando è sul punto di svegliarsi.

Alla luce di quanto emerso dagli studi successivi di psicofisiologia del sogno, è improbabile che quella proposta da Goblot sia l'unica cornice temporale possibile per il sogno. Sebbene, ad esempio, egli sostenesse che praticamente nessun racconto di sogno potesse essere ottenuto dopo risvegli bruschi (in quanto tale tipo di risveglio non consentiva il dipanarsi del sogno), questa affermazione è stata smentita sperimentalmente. Goodenough e coll. (1959) riportarono infatti una maggiore frequenza di resoconti di sogno dopo risveglio brusco rispetto a quando il risveglio è graduale. Questo risultato è stato spiegato in termini di processi di memoria da Cipolli e Salzarulo (1996), facendo riferimento ad una maggiore quantità di interferenze da parte dei contenuti della veglia nel caso di risveglio progressivo.

Nonostante ciò, l'interesse della teoria di Goblot sta nell'avere posto l'accento sul fatto che il risveglio, indipendentemente dallo stato di sonno da cui proviene, è un fenomeno complesso e caratterizzato da sequenze di eventi (su questi aspetti si veda Salzarulo, 1999): dunque, il suo corso può avere un'influenza importante sul richiamo del sogno e sul vissuto soggettivo.

3.7.3. Transizioni tra stati del sonno

Le transizioni tra sonno NREM e sonno REM, e viceversa, sono state analizzate da numerosi studi sul piano fisiologico (vedi il capitolo 1), ma molto meno sul piano psicologico. E metodologicamente più difficile analizzare ciò che accade nei momenti in cui i parametri fisiologici cambiano, talvolta rapidamente: riteniamo che la ragione principale sia di tipo storico-culturale. L'interesse degli studiosi, come abbiamo già visto, si è focalizzato molto di più sulle condizioni «stabili» del sonno (REM prima e NREM poi) che sui momenti di instabilità o di «indecisione funzionale» (Salzarulo et al., 1997).

Le poche osservazioni di cui disponiamo (Lairy, 1968; Lairy et al., 1968) hanno descritto una sorta di «sospensione» temporanea di attività mentale di tipo cognitivo, accompagnata da un vissuto emotivo intenso.

3.8. Sognare a tutte le età?

3.8.1. Le prime tappe della narrazione onirica

Come altri aspetti del funzionamento mentale, anche il sogno può cambiare; ma per cambiare bisogna che esista, cioè che esista la capacità di produrlo. E’ quindi necessario identificare il periodo in cui appare.

Ciò si può fare attraverso la constatazione delle espressioni linguistiche, testimoni abituali di un evento privato quale il sogno. Inoltre, l'affermazione di aver sognato, ed eventualmente il racconto, sono tributari anche dello sviluppo dei processi di memoria.

Sebbene Diatkine (1975) menzioni la possibilità che già dal secondo semestre di vita (ma in nessun caso prima), indipendentemente dal linguaggio, il processo onirico rappresenti la trasformazione di contenuti repressi, che in veglia trovano la forma di formazione reattive, è difficile argomentare sull'esistenza del sogno e sulle sue caratteristiche, qualitative e quantitative, sino a quando le funzioni cognitive complesse quali memoria e linguaggio non sono operative. In ogni caso, e lo vedremo per l'invecchiamento, i dati sulla presenza e la frequenza dei sogni sono tributari delle risorse cognitive di base, a meno che non si vogliano prendere come riferimento della capacità di sognare manifestazioni comportamentali (sorrisi, piagnucolìi, vocalizzi) e/o fisiologiche (sonno REM). Alcuni autori (Bourguignon, 1968; Mancia, 1981) propendono per questa ultima possibilità, altri, tra cui Salzarulo e coll. (1973), sono di parere opposto.

Curiosamente, un'indagine condotta da Salzarulo e Toselli (2002) ha mostrato che persone naïves in termini scientifici, quali madri primipare, sono non solo favorevoli all'ipotesi che il bambino sogni, ma sono anche in sintonia con alcuni scienziati, attribuendo al movimento e alle vocalizzazioni l'espressione del sogno. Ciò ci interroga, al di là del problema del sogno, sul ruolo che la motilità può avere nell'indicare l'esistenza di processi mentali concomitanti (Thelen e Smith, 1994), e soprattutto sulla possibilità, a nostro parere remota, che possa essere costruita una «se- meiologia motoria» con la quale decifrare il contenuto dei sogni attraverso il repertorio di movimenti osservati.

Le informazioni sulle espressioni verbali del sogno in funzione dell'età, cioè il racconto di un sogno ricordato, sono estremamente scarse.

Gli psicoanalisti se ne sono occupati in relazione allo studio della dinamica della psiche infantile e nell'ambito di processi terapeutici (A. Freud, 1936). Gli psicologi dello sviluppo si sono poco interessati a questo aspetto della vita mentale del bambino. Piaget (1945) si è occupato delle caratteristiche di contenuto del sogno e delle loro variazioni in funzione dell'età, sottolineando lo stretto legame tra evoluzione delle caratteristiche del sogno e sviluppo cognitivo, un aspetto sul quale anche Foulkes (1979) e Pinto e Salzarulo (1998) si sono soffermati successivamente.

Non vi sono, a nostra conoscenza, indagini di tipo «inchiesta» su larghe popolazioni sulla frequenza di sogni. Non è quindi possibile, tra l'altro, definire gruppi di recallers e non-recallers in funzione dell'età.

Indagini di tipo sperimentale su un ristretto numero di soggetti hanno portato qualche dato indicativo della frequenza con la quale i bambini ricordano i sogni a varie età.

Vi sono stati due tipi di approcci. Il primo, anche in ordine di tempo, è stato quello di Foulkes e coli. (1969) e Foulkes (1979) che hanno svegliato durante il sonno REM bambini di età compresa tra 4 e 10 anni mentre dormivano in laboratorio. Queste ricerche hanno concluso che il ricordo dei sogni è difficimente ottenibile a 4 anni: a quest'età solo il 15% dei risvegli era seguito da un ricordo di sogno; i racconti erano brevi, costituiti da una o due frasi e circa 14 parole (Foulkes, 1982). Le analisi di contenuto hanno mostrato la presenza di rappresentazioni statiche, con scarsa partecipazione personale ed emotiva. Dopo i 5 anni, e soprattutto verso i 7 anni, la lunghezza dei racconti aumenta notevolmente, con un numero di parole molto più elevato, in media 41 (Kerr et al., 1980), e il contenuto diventa più ricco e diversificato. Verso i 9-11 anni si possono ottenere racconti che sono come delle storie, con caratteristiche simili a quelle degli adulti.

Per ciò che riguarda il secondo approccio, lo stesso Foulkes (1979) ha studiato il ricordo dei sogni quando i bambini dormivano nel loro ambiente naturale, cioè la casa, e venivano interrogati dai genitori. La frequenza di ricordo era solo leggermente superiore a quella ottenuta in laboratorio; inoltre, anche in questo caso, molti soggetti non riferivano alcun sogno. La difficoltà ad ottenere un racconto di sogno in bambini di 4 anni veniva così confermata.

Risultati diversi sono stati conseguiti da un altro gruppo di ricerca a Boston (Resnick et al. 1994) anche in questo caso interrogando i bambini quando dormivano a casa. Già a 4-5 anni il 56% dei risvegli era seguito da un racconto di sogno, percentuale simile a quella dei bambini di 8-10 anni. E da notare, però, che mentre il 65 % dei risvegli al mattino era seguito da un ricordo di sogno, solo il 12% dei risvegli nel corso della notte lo era, risultato che è stato interpretato come dovuto a un non completo risveglio nel corso della notte.

Al di là delle polemiche che hanno contrapposto i due gruppi (Resnick et al., 1994; Foulkes, 1996b), bisogna sottolineare i problemi metodologici che esistono nel raccogliere il ricordo del sogno (Lairy e Salzarulo, 1975b), in particolare nei bambini, e il fatto che ad età uguale certi bambini ricordano i sogni molto più difficilmente di altri.

Mentre esistono discordanze evidenti per ciò che riguarda la frequenza di ricordo, vi è maggiore concordanza per la lunghezza dei racconti, più brevi nei bambini più piccoli, che i sogni siano raccolti in laboratorio o a casa. Questo dato non chiarisce, però, uno dei quesiti fondamentali: se la difficoltà a costruire narrazioni di sogni da parte dei bambini sia dovuta a un «incompleto» sviluppo cognitivo oppure a un deficit di memoria.

La scarsa frequenza e la brevità dei sogni in tutte le situazioni nei bambini di bassa età sono legate per Foulkes (1979) a un deficit dello sviluppo delle capacità cognitive (aspetto già evocato da Piaget) e in particolare di quelle visuo-spaziali.

I dati raccolti da Pinto e Salzarulo ( 1998) mostrano che sussiste una difficoltà a organizzare narrazioni di sogni anche quando i bambini hanno acquisito le capacità a costruire patterns narrativi; infatti, all'età di 7 anni i bambini non utilizzano, nel narrare i loro sogni, le stesse competenze cognitive e narrative che utilizzano invece per narrare una storia. Pinto e Salzarulo ritengono probabile che le caratteristiche dei racconti di sogni siano aderenti al materiale in memoria, piuttosto che «creazioni» di una storia. Infine, i loro dati non solo mostrano la complessità dei fattori implicati nell'approccio al sogno nello sviluppo, ma suggeriscono anche la necessità di analisi linguistiche di racconti raccolti in diverse situazioni e momenti rispetto a quando il sogno è stato «prodotto».

L'idea che i bambini hanno del sogno cambia anch'essa con l'età. Fino ai 6 anni, i sogni vengono vissuti come eventi reali; è soltanto dopo i 9 anni che il sogno inizia ad essere considerato come un evento prodotto dalla mente (Piaget, 1945). In uno studio del 1992 Woolley e Wellman affermano invece che già a 4 anni i bambini hanno un'idea del sogno come evento non-fisico, interno, che si svolge nella mente; in altri termini, secondo questi autori, i bambini sarebbero in grado di identificare i sogni come stati mentali fittizi.

Queste conclusioni sono in apparente disaccordo non solo con le concezioni di Piaget, ma anche con la persistenza - osservata dall'età di 4 anni almeno fino a 6-7 anni - di una struttura narrativa dei sogni estremamente «povera» (Pinto e Salzarulo, 1998).

3.8.2. Il ricordo del sogno nel soggetto anziano

Numerose ricerche hanno mostrato che la frequenza con la quale le persone anziane ricordano i sogni è inferiore (Altshuler et al., 1963; Zepelin, 1973; Herman e Shows, 1984) - o tende a esserlo (Waterman, 1991) - rispetto a quella dei giovani.

Per spiegare la diminuzione della frequenza di ricordo è stata ipotizzata una relazione con modificazioni dell'efficienza dei processi mnestici e con altre variabili cognitive. Tuttavia, un lavoro di Waterman (1991), effettuato in una popolazione di anziani privi di patologie neurologiche o somatiche gravi non ha mostrato alcuna correlazione fra ricordo di sogni e variabili cognitive quali memoria visiva, scores visuo-spaziali del Q.I., ragionamento verbale. Si tratta forse di difficoltà di recupero spontaneo?

Sono state invece trovate correlazioni tra le risorse cognitive e la lunghezza del racconto del sogno.

Le variabili cognitive sembrano quindi intervenire in questo tipo di popolazione (cioè nel corso di un invecchiamento fisiologico) per limitare la quantità di materiale disponibile e traducibile in resoconto verbale, piuttosto che sulla possibilità (capacità) di ricordare.

Con l'invecchiamento cambiano alcuni aspetti dei contenuti riferibili a categorie sufficientemente «larghe». L'elemento comune a molteplici ricerche condotte in diversi paesi (Blick e Howe, 1984; Zepelin, 1981; Waterman, 1991) è la diminuzione della componente «emozione», soprattutto nei soggetti di sesso femminile: gli anziani hanno sogni più «neutri», dove, in particolare, emozioni quali la paura e l'aggressività sono poco frequenti. E’ difficile rendere conto di questo fenomeno; va peraltro considerata la possibilità che nell'individuo anziano sia modificata la capacità di fornire resoconti articolati delle emozioni, la cui verbalizzazione richiede risorse superiori rispetto a quella che riguarda materiale neutro.

I risultati delle ricerche effettuate in laboratorio, con risvegli sia in sonno REM che in sonno NREM, hanno mostrato tuttavia che il ricordo dei soggetti anziani, pur se inferiore, non è molto diverso da quello dei soggetti giovani. Questo dato indica che la capacità di produrre sogni è conservata con un'«efficienza» simile a quella dei giovani.

Perché, allora, il ricordo al risveglio spontaneo del mattino è inferiore a quello di popolazioni più giovani?

II resoconto al risveglio notturno è richiesto non solo in un momento più vicino all'ipotetico momento in cui il sogno è stato prodotto, ma anche attraverso una consegna esplicita, che ha lo scopo di richiamare l'attenzione del soggetto sul sogno e probabilmente di facilitarne il recupero. Si può ipotizzare che tra produzione notturna e risveglio mattutino intervengano eventi che interferiscono con il ricordo, o che il recupero spontaneo del mattino sia più difficoltoso per mancanza di cues, ovvero di compiti espliciti - come avviene nei risvegli notturni provocati dallo sperimentatore -, o anche per scarsa motivazione.

Può essere interessante valutare il ricordo del sogno in funzione dell'atteggiamento che il soggetto ha verso di esso. È opinione diffusa, confortata da ricerche svolte negli Stati Uniti negli anni '80 (Herman e Shows, 1984), che le persone anziane siano poco interessate ai sogni e al sognare. Sono pochi coloro che cercano di ricordare i sogni o che desiderano ricordarli di più, evidentemente per una scarsa «considerazione» del «fenomeno» sogno. Risultati simili sono stati ottenuti da inchieste svolte in Finlandia (Achté et al., 1985).

Alcuni autori hanno proposto l'ipotesi che la diminuzione di frequenza di ricordi di sogni negli anziani sia dovuta proprio al diminuito interesse verso di essi; in effetti, quando le persone anziane vengono motivate ad interessarsi ai sogni, la frequenza di ricordo aumenta (Strunz, 1988), a testimonianza del fatto che il problema non sarebbe tanto in un impoverimento delle risorse cognitive necessarie a produrre sogni, quanto nell'«accessibilità» spontanea a ciò che si trova in memoria.